Restaurare un’opera grazie ai batteri “mangia-detriti”, nel rispetto dei materiali originali della tela e dell’ambiente. È la tecnica messa a punto dall’Istituto Specializzato ENEA-Roma e applicata nella Chiesa della Parrocchia di San Giacomo a Soriso, Novara, sulla tela del 1730 Il martirio di San Giacomo rivelato di Tarquinio Grassi.
Posizionata sulla parete in fondo al presbiterio, nel 2005 l’opera è stata protetta con una velina affinché non fosse rovinata dai lavori di recupero della volta sovrastante, senza però essere mai più scoperta. Rimuovere la velina ormai incollata alla tela avrebbe significato danneggiare gravemente l’opera. Ed è qui che entrano in gioco i batteri, grazie all’intervento innovativo finanziato da Fondazione CRT e Fondazione Comunità Novarese.
Ma in cosa consiste il processo di biopulitura e come si è arrivati alla definizione del batterio più adatto a questo specifico intervento? In occasione delle Giornate Europee del Patrimonio del 28 e 29 settembre, ce lo rivelano in un’intervista la restauratrice Tiziana Carbonati e Chiara Alisi dell’Enea di Roma.
L’intervento è basato sull’applicazione di un sistema innovativo di pulitura della pellicola pittorica: i batteri applicati alle opere d’arte. In che cosa consiste?
Questo processo, che chiamiamo “biopulitura”, si basa sulla capacità della cellula batterica di produrre diverse sostanze, gli enzimi in questo caso, utili a rimuovere depositi o substrati indesiderati di qualunque origine. La biopulitura prevede l’utilizzo di batteri vivi coltivati in gran numero (circa un miliardo di cellule per millilitro di terreno di crescita), che vengono poi centrifugati per eliminare il terreno di crescita e immobilizzati all’interno di un gel inerte.
In casi particolari i batteri vengono applicati “affamati”, cioè tenuti almeno 24 ore nel gel in assenza di nutrienti, per favorire il loro “appetito” verso i substrati organici da rimuovere e rendere più efficace il trattamento di rimozione. Si ottengono così impacchi di cellule microbiche facilmente applicabili sulle superfici da trattare – anche se verticali o soffitti – e facilmente rimovibili senza lasciare residui
Possiamo considerare la biopulitura un processo selettivo verso i depositi da rimuovere, rispettoso del materiale originario, innocuo per gli operatori e di facile impiego, poiché non richiede condizioni operative stringenti, ad esempio in termini di temperatura e pH, e non pone problemi di smaltimento dei residui.
Come funziona il processo di recupero e com’è composto il team coinvolto?
Il processo di biopulitura tecnicamente consiste nell’applicare il gel in cui è immerso il batterio a contatto della pellicola pittorica velinata su interposta velina inglese. L’impacco viene protetto da una pellicola in PVC per rallentare l’evaporazione dell’acqua contenuta nel gel, gradualmente si testa l’azione del batterio, in questo caso localmente le applicazioni sono variate da un minimo di 4 ore ad un massimo di 12 ore.
Le figure professionali coinvolte nel progetto sono di ambiti diversi: Edil Casa 2000 di Soriso per la realizzazione del ponteggio idoneo per l’allestimento del cantiere/laboratorio in quota, il fotografo professionista Marco Bertoli, il chimico per le analisi dei pigmenti Gianni Miani di Pro Arte Padova e le restauratrici Tiziana Carbonati, Chiara Metelli e Cristina Fortina Novara.
Come siete arrivate all’identificazione del batterio-restauratore?
Per rimuovere in modo mirato la colla impiegata per la velinatura, sono stati prima scelti all’interno della collezione del laboratorio quattro ceppi batterici (Pseudomonas glycinis UT30, Microbacteriumesteriaromaticus DAN5, Serratia ficaria SH7, Sphingomonasdokdonensis TAR2) in grado di produrre proteasi con diversa attività, senza influenzare con la loro azione il substrato.
Ogni ceppo è stato applicato immerso in una sostanza gelificata (Vanzan al 6%), un polisaccaride estratto da batteri. Al fine di verificare l’azione eventualmente esercitata dai supportanti, alcuni tasselli sono stati trattati con il solo supportante, privo di batteri. Dopo la rimozione degli impacchi, il ceppo Sphingomonasdokdonensis TAR2 è stato ritenuto quello più adatto con cui procedere con la biopulitura. Questo batterio proviene dalla Sardegna ed è stato isolato nei residui di lavorazione di un impianto industriale. Come gli altri della collezione, è un ceppo ambientale spontaneo, non produce spore ed è classificato nella classe di rischio 1 INAIL, quindi sicuro sia per gli operatori che per l’ambiente.
Com’è nata l’idea di applicarlo anche in questo intervento?
L’esigenza di rimuovere la velinatura messa a protezione della pellicola pittorica effettuata nel 2005 in previsione di un restauro mai effettuato, ha richiesto vista l’impossibilità di utilizzare i metodi tradizionali un sistema innovativo. Il progetto è stato approfondito e sviluppato unitamente alle funzionarie Dott.sa Benedetta Brison storica dell’arte e la Dott.sa Ozino Manuela Calligaris restauratrice del MIC_Sabap-NO.
È la prima volta che lo usate?
E’ la mia prima esperienza di utilizzo della biopulitura e di collaborazione con l’Istituto Enea- Casaccia di Roma nella persona della Dott. Chiara Alisi, una proficua e positiva cooperazione per la sperimentazione e applicazione di questo nuovo metodo.
In Piemonte e in Italia esistono altri interventi che hanno sfruttato o sfruttano questa tecnica?
I casi studio in cui sono stati testati i batteri per la biopulitura sono ormai molto numerosi, i primi interventi risalgono agli anni ’90 e la sperimentazione prosegue tuttora. Forse il caso più famoso è stato l’intervento sui marmi di Michelangelo alle Cappelle Medicee, dove l’impiego del ceppo Serratia ficaria SH7 è riuscito in due notti di lavoro a togliere i residui vecchi di secoli dovuti alla decomposizione di un corpo inserito di nascosto nel sarcofago di Lorenzo de’ Medici, Duca di Urbino.
In Piemonte, il processo con l’utilizzo dei batteri era stato sperimentato su diverse problematiche, come la rimozione di cera e sostanze lipidiche, ma con scarsi risultati. Questo ceppo TAR2, invece, per la prima volta è stato applicato per la rimozione di colla animale, e con ottimi risultati.
Che cosa significa recuperare il patrimonio culturale?
Il recupero del nostro patrimonio deve partire da una programmata attività di studio, per pianificare la manutenzione in alternativa al restauro che rappresenta nella grande maggioranza dei casi l’ultima soluzione prima della perdita del bene. Azioni necessarie per attivare la valorizzazione del bene stesso.
Qual è la parte migliore di questo lavoro?
Osservare come generalmente le persone rimangono stupite dai risultati che si possono raggiungere attraverso operazioni semplici o complesse di restauro, così come rilevare nel tempo il modo in cui un intervento abbia salvato o anche rallentato la perdita inevitabile di un’opera, riconoscendo la professionalità attraverso la conservazione anche dopo decenni dal lavoro eseguito.